Intervista ad un uomo che dopo due anni di percorso all’associazione Lui di Livorno, è uscito dal vortice di botte e soprusi nei confronti della moglie.
A cura di Ilaria Bonuccelli, tratto dal sito www.iltirreno.gelocal.it/regione/toscana
Sono stato un uomo violento». L’ammissione secca. Uno schiocco. Il cazzotto che rompe la radio. La pedata secca alla moglie. Il piatto fracassato contro il muro. «Ma stiamo attenti: la violenza che fa male non è solo quella fisica».
Ugo – è il nome che si è scelto l’uomo – soppesa le parole. Due anni di percorso all’associazione Lui di Livorno per capire decenni di soprusi. Per venirne fuori. Colloqui personali, di gruppo. Una terapia per “uomini maltrattanti”. «E non si è mai al sicuro. Al massimo, oggi sono più sicuro di non avere tentazioni di questo tipo». Un modo complicato per dire: ho imparato a gestire i momenti di crisi. A capire che la causa della mia violenza sono io e non gli altri. Non mia moglie. Provare a parlarne è una prova. Non facile.
Accetta l’incontro con Il Tirreno perché da oltre un mese conduce una campagna contro la violenza sulle donne. In particolare per rafforzare le misure di prevenzione della violenza, a cominciare dall’attivazione dei braccialetti elettronici salva-vita per evitare il cosiddetto “ultimo appuntamento”, spesso letale per la vittima.
Lei riconosce di essere stato un uomo violento?
«Certo che riconosco di essere stato un uomo violento, in tanti aspetti. Soprattutto lo sono stato perché ho pensato che la violenza fosse una risposta logica a quello che succedeva. La mia giustificazione era: “Sono violento perché l’altro o l’altra mi ha detto o ha fatto questo”. Intraprendendo il percorso nell’associazione, invece, mi sono reso conto che era un modo sbagliato di ragionare».
Ma che cosa intende per violenza? E con quali tipi di violenza sente di aver “agito”?
«La violenza, anche la mia violenza, non è stata solo fisica. La violenza è anche imporsi dal punto di vista economico, culturale. Certo, c’è il cazzotto, lo schiaffo. Ma c’è soprattutto l’atteggiamento di chi si sente superiore all’altro, tende a sopraffare l’altro: io sono il maschio, tu sei la femmina; i soldi in casa li porto io, quindi si fa quello che dico io. Oppure: bada a quello che hai speso; quello non si fa perché l’ho detto io».
Lei aveva atteggiamenti violenti o prepotenti già da bambino? Si dice che spesso gli adulti violenti siano stati bambini vittime di violenza almeno assistita
«No, non sono stato un bambino violento. Ma mi sono ritrovato addosso certi comportamenti che da bambino consideravo “normali” e che pensavo succedessero in tutte le famiglie, come la litigata feroce fra babbo e mamma. È chiaro che ciascuno di noi si porta dentro, a livello inconscio, questi esempi e che poi li replica da adulto, considerandole situazioni “normali”, anche se poi non lo sono».
A lei è accaduto questo?
«Sì. Diciamo che nella mia famiglia di origine ci sono state tensioni piuttosto forti fra i miei genitori, anche se poi ciascuno ha la propria storia e trova le proprie giustificazioni alla violenza nei confronti di chi gli sta intorno»
Lei quando ha iniziato ad avere comportamenti violenti? Non solo fisicamente
«Con il matrimonio. Quando si è fidanzati e si hanno divergenze ciascuno va a casa propria e hai tempo per rivedere la tua posizione. Quando sei sposato, invece, non c’è lo stacco temporale che ti permette di rivedere la posizione e stemperare il clima. Così non ti rendi conto che il tuo atteggiamento non è corretto, che in una discussione non è sempre colpa dell’altro, anche se tu tendi sempre a incolpare l’altro. Allora si creano situazioni che possono sfociare nella violenza o nella separazione che non esclude la prosecuzione della violenza».
Quali erano, scusi, le sue reazioni in “mancanza di tempo di ragionare”?
«Quando non hai tempo di ragionare tiri fuori quelle reazioni che, secondo te, sono le normali conseguenze di una litigata: sferri un pugno e rompi un tavolo o una sedia. Poi tutto si placa. Lì per lì non ti rendi conto della gravità del gesto e pensi di aggiustare tutto con un “Scusa qui, scusa là”».
Quindi lei non era consapevole della sua violenza?
«Ti ripeti: “Non sono violento perché non faccio altro che rispondere a una violenza”. Anche la lite fra genitori la leggi in questo modo: la mamma che tira il piatto al babbo o il babbo che tira lo schiaffo alla mamma sono la conseguenza ordinaria di un’azione: “perché l’altro ha fatto qualche cosa di violento” e non ci si sofferma a capire perché».
Non si rendeva conto neppure della rabbia che la muoveva?
«Rispondere sì o no sarebbe sbagliato, in entrambi i casi. Da una parte ero consapevole della rabbia che non dovevo avere; dall’altra mi giustificavo: “Non ce l’ho fatta più a sopportare”. In quegli atti tendi sempre a darti una giustificazione. E la più frequente è che l’altro ti ha portato a essere così. Non esci da questo meccanismo fino a quando non riesci a capire che l’atteggiamento della violenza è solo responsabilità tua».
Lei quanto ha impiegato a capire di essere un uomo violento?
«Diversi anni. Il concetto è sempre lo stesso: ti dici che sei violento perché è colpa dell’altro oppure perché l’altro se lo merita: “Non ha fatto quello che si era deciso”».
Quale è stato il fattore che le ha fatto intuire che stava sbagliando?
«Quando ho visto il comportamento dei miei figli. Ciascuno a modo proprio stava metabolizzando il mio comportamento violento. Stavano replicando lo stesso ruolo. Quando vedi che un figlio diventa violento, anche in modo verbale, per sopraffare chi gli sta accanto, capisci che devi fare qualche cosa. Per te e per lui. Mettendo in gioco te stesso e tutta la famiglia».
Ora è sempre un uomo violento?
«Spero di no. Dopo due anni di percorso, ho imparato a capire quando la situazione per me diventa critica e devo staccare. Non ho smesso di discutere con mia moglie, ma so quando fermarmi».
Si sente al riparo dalla violenza?
«Non ci siamo mai. Ma sono più al sicuro dalle tentazioni della violenza».
E che cosa direbbe a uomini che, invece, continuano a essere violenti?
«Che la violenza è un atto anche contro se stessi. E per quante giustificazioni uno possa darsi, non sono mai la realtà».